“Sapevi che queste montagne respirano? A volte, quando il sole sorge da dietro la parete orientale del barranco (gola) qui di Taurito, e la temperatura va aumentando, o, al contrario, quando si pone dietro le colline dall'altro lato, e la temperatura va diminuendo, all'interno di queste pareti lisce e quasi perpendicolari di scisti verdi si sentono piccoli colpi soffocati, appena percettibili dato il silenzio che ci circonda,”
“Sono le dilatazioni e contrazioni della roccia che...”
Non la lasciò finire.
“Marina, lo so che sei una geologa di fama internazionale, ma lascia ad un povero vecchio quest'ultimo sogno o illusione, come vuoi chiamarlo! Lasciami credere che anche le montagne hanno una loro vita, una vita di milioni di anni, si, ma che a volte si può percepire con un poco di attenzione e, sì, molta fantasia!”
“Ma, Alberto, anche tu sei di scienze...”
“Sì, la chimica è stata la mia fedele compagna negli ultimi quarant'anni. Ma adesso mi ritrovo a recitare fra me e me terzine di Dante, o versi di Carducci o Pascoli o del nostro grande poeta napoletano, Salvatore Di Giacomo. Sarà un sintomo in più della vecchiaia?”
“Vecchiaia? Ma sei ancora un giovanotto!”
“Sta zitta, ragazzina adulatrice! So bene quanti anni ho!”
“L'età non è quella dell'anagrafe, ma quella dello spirito!”
Marina era qualche anno più giovane di lui. L'aveva conosciuta una notte di San Silvestro di qualche addietro passata in casa di amici comuni. Bionda naturale, i riccioli ribelli sempre scompigliati, uno smagliante sorriso, due fondi occhi verdi, un trucco leggerissimo su di un viso di porcellana di Sévres, gli era piaciuta dalla prima volta che l'aveva vista.
Scoprirono di avere molte cose in comune: la solida preparazione tecnica, ma anche una vena letteraria (entrambi scrivevano), amanti della musica classica e della poesia classica, Virgilio, Orazio, ma in special modo Catullo.
Entrambi divorziati, cominciarono a vedersi con frequenza. Bastava una telefonata: “Sei in casa? Allora vengo.”
Stavano seduti sulle comode poltroncine rustiche dell'ampio terrazzino dal quale si dominava tutta la piccola baia di Taurito, in Gran Canaria, e lo sguardo spaziava senza limite fino ad un orizzonte lontano, dove il celeste del cielo si stemperava nell'azzurro cupo dell'Atlantico.
“È quasi come se l'appartamento avesse una stanza in più.” aveva commentato Marina la prima volta che era andata a casa di Alberto.
“Stanza con vista, però.”
Marina rise: “E che vista!”
Erano soliti passare molto tempo così, a volte senza scambiare una parola, sorbendo
una granita di caffè casereccia, o un whisky and soda con molto ghiaccio, mentre dalla vetrata aperta del saloncino arrivavano le note dello stereo che suonava un notturno di Chopin, godendo della pace e tranquillità che regnava sovrana.
“Di dove sei?” gli chiese una volta.
“Be', sono di Napoli, ma il lavoro e la vita mi hanno fatto diventare cittadino del mondo.”
“Io sono di Torino, ma vivo qui da trent'anni. Ho sposato uno di qui, un brav'uomo che mi ha lasciato vedova con un figlio quando avevo solo venticinque anni.”
“Deve essere stata dura!”
“Si, ma me la sono cavata in qualche modo, lavorando come potevo, e badando al bambino.”
“Hai mai pensato di tornare in Italia, a Torino?”
“ No, mai: adoro questi posti, questa gente aperta e cordiale, il clima sempre mite, ma, sopratutto, il mare. E poi c'è mio figlio, i miei nipotini. E tu? Nostalgia d'Italia? Hai mai pensato di tornare a Napoli?”
“Sì, tantissima nostalgia. Ma, vedi, anche io ho figli e nipotini, e stanno lontani, a Madrid, ed è più semplice ed economico un volo da Madrid a Gran Canaria che a Napoli. E poi, per vivere in un posto come questo vicino a Napoli, e l'unico sarebbe sulla costiera amalfitana, bisogna essere milionari, mentre qui mi basta la pensione...”
Un giorno, il sole stava tramontando tuffandosi nell'Atlantico e solo una metà del disco era ancora visibile. Nel cielo, sfilacci di nuvole rosa. Il mare, leggermente increspato, era tutto un luccichio di toni dorati ed oscuri, sul quale si stagliava, nera, la silhouette di un veliero a tre alberi, ancorato a pochi metri dalla punta occidentale del barranco.
“Guarda quel veliero!” disse lei.
“Sì, è un veliero che, a pagamento, porta i turisti in giro per l'isola.”
“Come sei prosaico! Quello - continuò con voce misteriosa - è il famoso 'Vascello Fantasma', dove navigano gli spettri di Morgan il Pirata e la sua ciurma. Le notti senza luna, con nere vele spiegate, abbordano le barche dei pescatori di sardine e gli rubano l'anima per portarla all'inferno...”
“Bisognerà avvisare il guardacoste!”
Risero tutti e due di buon gusto.
“Quanta fantasia!”
“E tu, invece, non ne hai nemmeno un briciolo!”
Risero di cuore, ed Alberto si rese conto, una volta in più, di quanto quell'amicizia fosse importante per lui, di come la presenza di lei riempisse la sua vita di eremita.
Relegò nel più remoto del suo cervello l'idea che quello che sentiva per lei potesse essere qualcosa di diverso, dippiù che un semplice sentimento di profonda, sincera amicizia. Non poteva, non DOVEVA! Aveva troppa paura di perderla...
Un brutto giorno, Alberto ricevette una telefonata dal figlio di Marina: “Mamma sta grave, ha chiesto di vederti...”
Andò alla clinica. Marina giaceva supina nel letto bianco, in una nuda stanzetta individuale. Al vederlo, sollevò un mano: “Alberto! Sei venuto...”
“Be', visto che non venivi tu...”
Sorrise debolmente.
Alberto colse tra le mani la sua mano alzata, e le baciò le dita.
“Perché mi fai questo, Marina?”
“Il mio vecchio cuore non ha retto più alla delusione che mi hai dato, nel non
deciderti mai a dire quello che, lo so!, sentivi per me...Ma adesso sei qui, e posso andarmene in pace!”
“Non mi fare questo, Marina! Ti amo, ti ho sempre amato!” disse con voce sommessa, rotta dall'emozione.
“Anche io!” sussurrò lei.
Chiuse gli occhi, mentre silenziose, amare lacrime bagnavano le guance di lui.