“Sapevi che queste montagne respirano? A volte, quando il sole sorge da dietro la parete orientale del barranco (gola) qui di Taurito, e la temperatura va aumentando, o, al contrario, quando si pone dietro le colline dall'altro lato, e la temperatura va diminuendo, all'interno di queste pareti lisce e quasi perpendicolari di scisti verdi si sentono piccoli colpi soffocati, appena percettibili dato il silenzio che ci circonda,”
“Sono le dilatazioni e contrazioni della roccia che...”
Non la lasciò finire.
“Marina, lo so che sei una geologa di fama internazionale, ma lascia ad un povero vecchio quest'ultimo sogno o illusione, come vuoi chiamarlo! Lasciami credere che anche le montagne hanno una loro vita, una vita di milioni di anni, si, ma che a volte si può percepire con un poco di attenzione e, sì, molta fantasia!”
“Ma, Alberto, anche tu sei di scienze...”
“Sì, la chimica è stata la mia fedele compagna negli ultimi quarant'anni. Ma adesso mi ritrovo a recitare fra me e me terzine di Dante, o versi di Carducci o Pascoli o del nostro grande poeta napoletano, Salvatore Di Giacomo. Sarà un sintomo in più della vecchiaia?”
“Vecchiaia? Ma sei ancora un giovanotto!”
“Sta zitta, ragazzina adulatrice! So bene quanti anni ho!”
“L'età non è quella dell'anagrafe, ma quella dello spirito!”
Marina era qualche anno più giovane di lui. L'aveva conosciuta una notte di San Silvestro di qualche addietro passata in casa di amici comuni. Bionda naturale, i riccioli ribelli sempre scompigliati, uno smagliante sorriso, due fondi occhi verdi, un trucco leggerissimo su di un viso di porcellana di Sévres, gli era piaciuta dalla prima volta che l'aveva vista.
Scoprirono di avere molte cose in comune: la solida preparazione tecnica, ma anche una vena letteraria (entrambi scrivevano), amanti della musica classica e della poesia classica, Virgilio, Orazio, ma in special modo Catullo.
Entrambi divorziati, cominciarono a vedersi con frequenza. Bastava una telefonata: “Sei in casa? Allora vengo.”
Stavano seduti sulle comode poltroncine rustiche dell'ampio terrazzino dal quale si dominava tutta la piccola baia di Taurito, in Gran Canaria, e lo sguardo spaziava senza limite fino ad un orizzonte lontano, dove il celeste del cielo si stemperava nell'azzurro cupo dell'Atlantico.
“È quasi come se l'appartamento avesse una stanza in più.” aveva commentato Marina la prima volta che era andata a casa di Alberto.
“Stanza con vista, però.”
Marina rise: “E che vista!”
Erano soliti passare molto tempo così, a volte senza scambiare una parola, sorbendo
una granita di caffè casereccia, o un whisky and soda con molto ghiaccio, mentre dalla vetrata aperta del saloncino arrivavano le note dello stereo che suonava un notturno di Chopin, godendo della pace e tranquillità che regnava sovrana.
“Di dove sei?” gli chiese una volta.
“Be', sono di Napoli, ma il lavoro e la vita mi hanno fatto diventare cittadino del mondo.”
“Io sono di Torino, ma vivo qui da trent'anni. Ho sposato uno di qui, un brav'uomo che mi ha lasciato vedova con un figlio quando avevo solo venticinque anni.”
“Deve essere stata dura!”
“Si, ma me la sono cavata in qualche modo, lavorando come potevo, e badando al bambino.”
“Hai mai pensato di tornare in Italia, a Torino?”
“ No, mai: adoro questi posti, questa gente aperta e cordiale, il clima sempre mite, ma, sopratutto, il mare. E poi c'è mio figlio, i miei nipotini. E tu? Nostalgia d'Italia? Hai mai pensato di tornare a Napoli?”
“Sì, tantissima nostalgia. Ma, vedi, anche io ho figli e nipotini, e stanno lontani, a Madrid, ed è più semplice ed economico un volo da Madrid a Gran Canaria che a Napoli. E poi, per vivere in un posto come questo vicino a Napoli, e l'unico sarebbe sulla costiera amalfitana, bisogna essere milionari, mentre qui mi basta la pensione...”
Un giorno, il sole stava tramontando tuffandosi nell'Atlantico e solo una metà del disco era ancora visibile. Nel cielo, sfilacci di nuvole rosa. Il mare, leggermente increspato, era tutto un luccichio di toni dorati ed oscuri, sul quale si stagliava, nera, la silhouette di un veliero a tre alberi, ancorato a pochi metri dalla punta occidentale del barranco.
“Guarda quel veliero!” disse lei.
“Sì, è un veliero che, a pagamento, porta i turisti in giro per l'isola.”
“Come sei prosaico! Quello - continuò con voce misteriosa - è il famoso 'Vascello Fantasma', dove navigano gli spettri di Morgan il Pirata e la sua ciurma. Le notti senza luna, con nere vele spiegate, abbordano le barche dei pescatori di sardine e gli rubano l'anima per portarla all'inferno...”
“Bisognerà avvisare il guardacoste!”
Risero tutti e due di buon gusto.
“Quanta fantasia!”
“E tu, invece, non ne hai nemmeno un briciolo!”
Risero di cuore, ed Alberto si rese conto, una volta in più, di quanto quell'amicizia fosse importante per lui, di come la presenza di lei riempisse la sua vita di eremita.
Relegò nel più remoto del suo cervello l'idea che quello che sentiva per lei potesse essere qualcosa di diverso, dippiù che un semplice sentimento di profonda, sincera amicizia. Non poteva, non DOVEVA! Aveva troppa paura di perderla...
Un brutto giorno, Alberto ricevette una telefonata dal figlio di Marina: “Mamma sta grave, ha chiesto di vederti...”
Andò alla clinica. Marina giaceva supina nel letto bianco, in una nuda stanzetta individuale. Al vederlo, sollevò un mano: “Alberto! Sei venuto...”
“Be', visto che non venivi tu...”
Sorrise debolmente.
Alberto colse tra le mani la sua mano alzata, e le baciò le dita.
“Perché mi fai questo, Marina?”
“Il mio vecchio cuore non ha retto più alla delusione che mi hai dato, nel non
deciderti mai a dire quello che, lo so!, sentivi per me...Ma adesso sei qui, e posso andarmene in pace!”
“Non mi fare questo, Marina! Ti amo, ti ho sempre amato!” disse con voce sommessa, rotta dall'emozione.
“Anche io!” sussurrò lei.
Chiuse gli occhi, mentre silenziose, amare lacrime bagnavano le guance di lui.
IL NOVELLIERE
martedì 22 novembre 2011
lunedì 31 ottobre 2011
FRANCESCA (Un'amicizia sincera)

Alta, slanciata, con il seno piccolo ma perfetto, i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle. Non era esattamente una bellezza, ma aveva un suo fascino tutto particolare:
come muoveva le mani affusolate senza gesticolare appena, il modo di inclinare la testa guardandoti negli occhi come per capire meglio quello che le si diceva. Lavoravano come interni nello stesso laboratorio dell'Istituto Chimico.
Quel giorno Francesca sembrava distratta, preoccupata.
“Che ti succede, Francesca?” chiese lui.
“Scusami, ma oggi non ci sto con la testa...”
“Sì, può capitare , ma non dimenticare che tra pochi mesi abbiamo gli esami di laurea...Senti, ti faccio una proposta: continuare così non serve né al lavoro, e sai quanto ci tenga il Prof, né a nessuno. Smettiamo, per oggi. Ci prendiamo un caffè al bar di fronte, e ti riaccompagno a casa. Se vuoi, puoi raccontarmi cosa ti succede...Siamo amici, no?”
Il bar era pieno come sempre: generazioni di studenti erano passati e continuavano a passare da lì a prendersi un caffè tra una lezione e l'altra, o a mangiare un veloce panino durante lo spacco del mezzogiorno.
“I proprietari di questo bar si sono fatti milionari con i nostri caffè!” commentò lei.
“Hanno avuto naso e scelto il posto giusto!”
Presero il caffè, poi risalirono per via Mezzocannone poi, girando a destra, proseguirono per Via Tribunali.
“Sembra incredibile che per questa strada passeggiasse il Boccaccio tanti secoli fa!”
Francesca viveva con i genitori in un vecchio palazzone signorile del settecento che, in tempi relativamente recenti, era stato diviso in tanti appartamenti individuali. L'entrata, sulla stretta strada di Tribunali, era un arco altissimo da cui pendeva un gran lampione, un tempo a gas ora elettrico. A ricordo delle passate glorie era rimasta, al centro dell'ampio cortile circondato dalle scale e dai lunghi pianerottoli, un'enorme scultura in terracotta di una testa di cavallo.
“Quell'idiota di Guglielmo mi ha lasciato...” disse lei, alla fine.
“Idiota veramente! - commentò lui – Come si fa a lasciare una ragazza come te?”
“Lascia perdere i complimenti! Il fatto è che mi chiedeva cose per cui non mi sento ancora preparata.”
“L'amore platonico non esiste. L'amore è anche sesso.”
“Sì, ma nello stato d'animo corretto, con un coinvolgimento completo, una compenetrazione totale. Ed io, in questo momento, non mi trovo nelle condizioni giuste.”
“Forse Guglielmo non era la persona giusta.”
“Se Guglielmo cerca un'ora di passione e dopo non ti conosco, ci sono decine di
ragazze nella facoltà che potrebbero anche accettarlo. Ma io no.”
“Ti capisco. Cechi una relazione stabile. Ma non ti sembra che, per questo, sia un po` presto?”
“Per niente! Mia madre si fidanzò alla mia età, e si è sposata con l'uomo che amava dopo ben sei anni di fidanzamento! Ed è arrivata vergine all'altare.”
“Altri tempi...”
“Voi dire che sono un'illusa, una imperdonabile romantica?”
“No, ma oggi la vita è cambiata, e lo sai benissimo anche tu.”
“La ricordi la canzone dei '60 che cantava Rita Pavone? 'Non ho l'età...lascia che io viva un amore romantico, nell'attesa che venga quel giorno. Ma ora no...' Be`, sarò una stupida, ma mi sembra che queste parole si adattino perfettamente alla mia personalità.”
“Fortunato l'umo che riesca a conquistare il tuo cuore! Ti ammiro, Francesca!”
Sorrise. “Ti lascio. Ci vediamo domani in laboratorio”
Si dettero la mano ma, improvvisamente, Francesca lo abbracciò, mormorando “Grazie! Sei un amico!”
Lui non aveva mai creduto nell'amicizia tra una donna ed un uomo. E, in più, doveva ammettere che Francesca gli piaceva. Ma si rendeva conto della sua fragilità in quel momento e pensò che sarebbe stato vigliacco da parte sua approfittarne.
Si laurearono quell'estate: Francesca cum laude, lui dovette accontentarsi di un voto un poco più modesto.
Pochi mesi dopo, era su di un aereo che lo avrebbe portato a Milano, prima tappa di un viaggio, inseguendo un lavoro, che lo avrebbe portato fuori d'Italia, in paesi lontani e così differenti dalla sua amata Napoli.
Molti anni dopo, tornò a Napoli, all'Istituto Chimico dell'Università per vedere al suo antico professore di Chimica Generale e relatore della sua tesi di laurea. E la rincontrò: aveva raggiunto quell'età in cui le donne fioriscono, e gli sembrò stupenda.
“Ciao, Francesca, come stai?”
“Tu? Da quanti anni! Dieci?”
“Più o meno.”
“E dove ti eri cacciato? Ti ho odiato, sai? Né una cartolina, né una telefonata...”
“Sono stato in giro per il mondo, inseguendo il mio sogno di ricercatore. Ma niente: sempre in impianti di produzione, o in laboratori do Controllo Qualità, la routine più anonima e priva di qualunque soddisfazione professionale.”
“E che ci fai qui?”
“Sono venuto a parlare con il Prof, a presentargli un articolo che ho pubblicato su una prestigiosa rivista scientifica americana. È un lavoro teorico sulla fabbricazione di fibre tessili di poliammide, che sarebbe utile verificare sperimentalmente con una apposita linea di ricerca.”
“Che ti ha detto, il vecchio?”
“Che non era nella sua linea di investigazione...”
“E tu, che?”
“Qui, noi, a lottare per il vil denaro...Oggi ti avrebbero cacciato a pedate al primo pallone di vetro che ti scappava di mano e si frantumava al suolo! Il CNR si è trasferito ad Arcofelice, e si è portato con sé, oltre ai migliori cervelli, i fondi statali.”
“Se sposata?”
“Sì, con la chimica...E tu?”
“Troppo sempre in viaggio, per potermi sposare...”
“E il vecchio che dice?”
“Sempre uguale. Sempre più nell'empireo dei suoi studi di cristallografia, sperando, anche se non lo dice, di ricevere il secondo Premio Nobel, dopo quello del suo mentore Giulio Natta, quando era a Milano...”
“Sai come si dice: il buon chimico è come il buon vino, migliora con gli anni.”
“Ho un'idea: perché non aspetti che finisca qui, andiamo a casa mia, ci prendiamo un bicchiere di whisky o una coppa di cognac, e brindiamo al rincontro?”
“Vivi sempre con la testa di cavallo?”
“Ahahah! Si, ma sola: i miei mi hanno lasciato in questi ultimi anni.”
“Allora andiamo!”
Si sposarono qualche mese dopo.
“E vissero felici e contenti?”
Ahimè, no. Ma questa è un'altra storia...
venerdì 28 ottobre 2011
CARLA (La crisallide e la farfalla)

Si erano perduti di vista da oltre vent'anni. Si rincontrarono in occasione della morte di una zia comune: sorella della madre di lei e del padre di lui.
La ricordava bambina. Era decisamente brutta, e, per dippiù, assolutamente sgraziata: ultima ed unica femminuccia dopo tre maschi, era cresciuta come un maschiaccio, un padre maltrattatore ed una madre assente La ritrovava ora, fiorente, bella senza dubbio, con la grazia femminile che aveva ereditato dalla madre, e che era rimasta chiusa per anni nella brutta crisalide dalla quale sarebbe sbocciata una meravigliosa farfalla.
“Carla.” la chiamò lui sottovoce.
“Alberto! Tu? Ma dove ti eri cacciato, tutti questi anni?” rispose lei nello stesso tono di voce.
“Shhhh! Non è questo né il momento né il posto per le rimpatriate. Però se, alla fine del funerale, ci stai a prendere qualcosa con me, possiamo parlare con calma. Suppongo che avremo molte cose da raccontarci...”
Tornarono insieme dal cimitero di Poggioreale, nella macchina di lui, ed andarono a sedersi ad uno dei tavolini del Gambrinus, a piazza Trieste e Trento, a prendere un gelato.
“Be', parlami di te, degli altri della famiglia”
“Papà è morto molti anni fa...”
“Lo so, ero ancora qui, ed ero appunto a casa tua quando successe.”
“Mamma si è risposata pochi anni dopo.”
“C'era da aspettarselo: quando ancora era vivo tuo padre, civettava con tutti gli uomini che le capitavano a tiro.”
“Alberto! - si indignò lei - Stai parlando di mia madre!”
“Carla, ora sei donna anche tu (e che donna! Pensò) e devi ammetterlo, E poi, tuo padre era un maltrattatore, lo sai bene!”
“Che famiglia felice...- commentò lei, quasi tra sé e sé – Lasciamo andare questo tema, continua a farmi male!”
“Mi spiace, non volevo! Ma parlami dei tuoi fratelli.”
“Marco è sposato da anni, e vive a Roma con la moglie e due figli meravigliosi.
Eugenio vive a Napoli, con il suo compagno, e sottolineo il maschile...”
“Ahahah, e pensare che è stato proprio Eugenio, quando lui aveva sedici ed io quattordici anni, ad insegnarmi tutto sul sesso e sulle donne! Allora non si sarebbe detto che non gli piacessero!”
“Ludovico che, ricorderai, era un po' mentalmente ritardato, ha completato la Scuola Alberghiera, ed ora è cuoco in un gran ristorante di Zurigo.”
“E tu? Che mi dici di te? Sposata? O ancora in attesa del Principe Azzurro (e sottolineo il maschile)?”
“Be' no, non sono sposata, e si, aspetto mio Principe Azzurro. Dopo l'esperienza di
mio padre, capirai che ci vado molto cauta...”
“Vivi sempre nella casa del Vasto?”
“No. Gli ultimi anni ho vissuto con nostra zia, che come ricorderai, era vedova e senza figli, nell'appartamento ai Camaldoli, che ora è mio, giacché me lo ha lasciato in eredità. Anzi, perché non fai una cosa? Una sera di queste vieni a cenare da me. Ti ricordi dov'è?”
“Sì, più o meno...Comunque, dammi il tuo numero di telefono, se per caso dovessi perdermi...”
Qualche sera dopo, cenarono assieme a casa di Carla. Fu un cenetta familiare, casereccia, senza fronzoli né etichetta, accompagnata dal buon vino rosso del Vesuvio che aveva portato Alberto. Parlarono dei tempi passati, della loro adolescenza dorata, non senza qualche rimpianto, ma anche con tanti ricordi piacevoli, alcuni decisamente divertenti, sui quali risero di cuore.
Alberto, figlio unico, che sempre aveva desiderato una sorellina e che mai l'aveva avuta, assaporò la tranquilla felicità che quella cugina ritrovata gli stava regalando.
Presero il caffè nel salottino, seduti fianco a fianco sul comodo divano tappezzato con orribili fiori rossi.
“Certo che la zia aveva un gusto orrendo in tema di arredamento!” commentò.
Carla sorrise: “Ora che è casa mia, getterò questo divano e queste poltrone nel primo falò di Sant'Antonio che facciano sufficientemente vicino a qui! Te lo prometto!”
Rimasero fino a notti inoltrata a rispolverare i vecchi ricordi della loro fanciullezza.
“A te piaceva pettinarmi. Dicevi che da grande avresti fatto la parrucchiera, ed io ti servivo come cavia: a casa della zia (quanti pomeriggi e serate abbiamo passato lì!), io mi sedevo su di un seggiolina bassa e tu mi pettinavi con cura...”
“E quando scendevamo dai vicini del piano di sotto, che giá avevano comprato il televisore, a veder Mike Buongiorno ed il suo Lascia o Raddoppia...”.
“Poi anche la zia comprò un televisore, un mastodonte di ventiquattro pollici. Allora la televisione era ancora in bianco e nero (scommetto che i giovani di oggi non lo immaginano nemmeno, che un tempo la TV era solo in bianco e nero) e solo si riceveva un canale...”
“E quando veniva anche tuo fratello Ludovico, e si univano a noi le due figlie di don Peppino, il portiere, e giocavamo a merito e moglie sul ballatoio che dava sul gran cortile interno del vecchio palazzo...”
“ E quando...”
“Sì, ma il passato è oramai passato, e quegli anni spensierati non ritornano più!”
“Be' basta di malinconie! – disse Alberto – Piuttosto: domani è la festa della Madonna del Carmine. Che ne diresti se andassimo a veder l'incendio del campanile? Ci sei mai stata?”
“Nooo! Ma che buona idea! D'accordo, passa a prendermi alle...a che ora è, l'incendio?”
“Non lo so esattamente. Domattina mi informo e ti telefono, così facciamo un appuntamento preciso.”
“Traffico permettendo...Albe', ricordati che siamo a Napoli!”
“Non ti preoccupare, terremo in conto anche il fattore traffico.”
Si lasciarono con un abbraccio.
L'incendio del campanile della chiesa del Carmine è una festa popolare che, in memoria di un incendio realmente accaduto molti secoli fa, si ricorda con una gioco di fuochi d'artificio e giochi pirotecnici che fanno sembrare che nel campanile sia ancora una volta preda delle fiamme.
La grande piazza antistante la chiesa della Madonna del Carmine brulicava di gente. La scura mole della chiesa si stagliava contro il brillante cielo della notte estiva. Lontano, si distingueva appena la doppia silhouette del Vesuvio, con la fila delle brillanti luci della funivia, e del Monte Somma.
Al fianco della chiesa, la snella ed alta torre campanaria con le sue finestre in una fuga verticale di archi a tutto sesto.
Ai bordi della piazza, bancarelle di ambulanti vendevano, alcune, porzioni di polipo lesso e tazzoni di brodo di polipo, altre taralli, rustici con pepe e mandorle tostate o dolci, bianchi di glassa di zucchero, altre ancora zeppole e panzarotti, piccole porzioni di pasta di farina e crocchè di patata senza uovo, fritti in enormi padelle su fornelli improvvisati ricavati da vecchi bidoni.
Il brusio della folla era incessante.
Ad un tratto, un razzo lanciato da qualche punto dietro il campanile, si elevò al cielo, per aprirsi con strepito in una cascata di splendenti luci bianche: era il segnale dell'inizio dell'incendio.
Le finestre del campanile si illuminarono dall'interno di bengala prima gialli brillanti poi di un rosso cupo: cominciarono dal primo piano per poi estendersi gradualmente a tutti i piani superiori, mentre piccoli razzi si aprivano nel cielo della placida notte.
Il brusio della folla era cessato, tutti erano attenti allo spettacolo, mentre il silenzio era rotto dallo scoppiettio di piccoli petardi all'interno delle finestra “incendiate”.
Finalmente, anche la finestra dell'ultimo piano della torre si tinse di rosso. Poco alla volta i bengala si spensero, i petardi ammutolirono. Alla fine, quando tutte le finestre rimasero oscure, le campane suonarono festive al volo: l'incendio era stato domato, lo spettacolo era finito. La folla cominciò a disperdersi, soddisfatta, in attesa del prossimo incendio dell'anno seguente.
Alberto riaccompagnò Carla a casa.
“Sali un attimo, per un ultimo drink.”
Si sederono sul divano dagli orribili fiori rossi, sorseggiando un ottimo Fin Champagne nelle panciute coppe raccolte nel cavo della mano.
“Uno spettacolo affascinante.- disse Carla - Me lo avevano detto, ma non lo avevo mai visto di persona. Grazie!”
“Contento che ti sia piaciuto.”
Si fece silenzio tra i due, un silenzio complice, nel quale ripassarono le emozione di quegli ultimi giorni, quel rincontro inaspettato, il piacere di stare una volta ancora insieme come negli anni lontani della loro infanzia.
“Domani parto di nuovo. Il lavoro mi chiama di nuovo lontano dalla mia città...ma ci rivedremo!”
“Promettimelo!”
“Promesso!” La baciò sulla guancia, a quella sorella sempre desiderata ma mai avuta, ritrovata dopo tanti anni.
Chiuse la porta alle sue spalle, con il cuore in un pugno.
domenica 23 ottobre 2011
TRE (Racconto breve di un'amicizia)

Napoli, Luglio1962
Sedici luglio 1962: esame di maturità nell'Istituto Collegio Bianchi di Napoli.
L'aula magna dell'Istituto era stata adattata con una serie di cattedre per accogliere la commissione esaminatrice per gli esami orali.
Mentre il primo gruppo di esaminandi passava il calvario delle interrogazioni, il resto si raggruppava nel terrazzino contiguo all'aula, alcuni fumando nervosamente. Fumare era ovviamente strettamente proibito, ma i buoni Padri facevano finta di non vedere, considerando la tensione di quelli che aspettavano il loro turno per essere interrogati.
Finalmente, uno alla volta, cominciarono ad uscire dall'aula i primi che avevano ormai superato le interrogazioni. Furono immediatamente circondati, e si incrociarono domande e risposte: com'erano gli esaminatori? Severi? Chiedevano molto? Facevano domande difficili?
“La commissaria di Italiano è una vera arpia!”
“E il greco? Com'è andata con il greco?”
“Be', si sono resi conto che il testo ministeriale della traduzione proposto per lo scritto conteneva un errore di ortografia (una omega con iota sottoscritta che nel testo ministeriale era scritta senza iota) che rendeva incomprensibile un intero periodo, ed hanno deciso di non tenerlo in conto...”
“Il migliore è quello di storia dell'arte! Mai avuto un'interrogazione così semplice!”
“Ci credo! Non per niente è il membro interno!”
“Sì, ma il suo voto fa media come tutti gli altri...”
“Buon per noi se riesce a farci salire la media di qualche decimo!”
I tre inseparabili, Roberto, Paolo e Gianni, compagni di classe e di studio, ma anche di svago, durante gli ultimi cinque anni, si ritrovarono si ritrovarono nella friggitoria dell'angolo, messa lì casualmente (ma forse nemmeno tanto...) a rimpinzarsi di panzarotti (croquet di patata) fatti, per risparmiare, con il minimo indispensabile di uovo e quindi piuttosto flaccidi, e paste cresciute, soffici frittelle di farina lievitate, e pall''e riso, arancini di riso, il tutto fritto con un olio che senza dubbio aveva visto giorni migliori: a quell'epoca, la parola colesterolo non entrava nel vocabolario dei non “addetti al lavoro”, ma la salute intrinseca dei diciotto anni poteva permettersi questi strappi alla dieta salubre senza maggiori conseguenze.
“Come ti è andata?” chiese Paolo a Roberto, lo sgobbone del gruppo.
“Non sono sicuro (E quando mai questo è sicuro di qualcosa? si chiese Paolo), ma temo che mi rimarrà fisica per ottobre...”
“Con tutto quello che mi hai fatto sudare per fartela entrare in quella zuccona tua - rispose Paolo - Tutta fatica sprecata!”
“Che ci vuoi fare...ormai, quello che è fatto è fatto. Sai che il gruppo scienze non è
mai stato il mio forte...”
“Ah, perché il gruppo lettere si!” rise Gianni.
“Non mi prendere in giro! Già ne ho abbastanza con le mie proprie preoccupazioni per sopportare anche le tue ironie!”
“E a te come è andata?” chiese Roberto ad Paolo.
“Be' non mi posso lamentare. Però l'arpia di italiano quasi mi rovina i risultati con una domanda tanto assurda che sono convinto che me l'ha fatta solo per fregarmi...Meno male che ho fatto un ottimo scritto...”
“Avrei proprio voluto vedere il contrario!” commentò Gianni.
Napoli, agosto 1962
Visti i risultati (tutti e tre “maturi”, anche Roberto, non ostante i suoi dubbi sull'esame di fisica), lasciate alle spalle le tensioni e gli sforzi di quell'ultimo anno di scuola, e con la mente già proiettata verso l'università, cominciarono le migliori vacanze della loro vita.
Stavano andando verso la spiaggia di Lucrino, a pochi chilometri a nord di Napoli con la nuova auto di Roberto, regalo della famiglia per la conseguita maturità.
“Avete già pensato a quello che farete, all'Università? - chiese Gianni.- “Per me, è una scelta quasi obbligata: figlio di medico, nipote di medico...dovrò seguire la tradizione di famiglia, penso. Però un poco mi spaventano i sei anni di facoltà, più possibilmente un paio di anni extra per una specializzazione. A meno di non fare il medico della mutua...”
“Io non mi pongo problemi. - rispose Roberto – Esclusa qualunque facoltà scientifica, non mi rimane che fare Legge, quattro anni di facoltà relativamente facili e poi un qualsiasi concorso nell'amministrazione statale. Ventisette sicuro, a casa tutte le feste comandate e non, senza fretta né pressione...”
“Non ti illudere con la facoltà di Legge: mi hanno detto che, con il professor Guarino, l'esame di Diritto Romano risulta notevolmente ostico.”
“Sarà, ma è un solo esame!”
“Il mio sogno è più ambizioso. – interloquì Paolo – Spero di riuscire a rimanere nell'ambito universitario, come assistente, e sviluppare il lavoro che ho cominciato come tesi di laurea: un qualche nuovo tipo di materiale plastico. Oggi che siamo invasi dalla plastica, dalle fibre tessili artificiali, nailon, terital eccetera, ai recipienti di Moplen, è un campo talmente vasto ed aperto a tutti gli sviluppi dove l'investigazione riveste un ruolo sempre più importante.”
“Ragazzi, basta parlare di studi, facoltà eccetera: ci aspettano le ragazze! Buona caccia a tutti noi, ed a goderci le meritate vacanze!”
“Questo sì che è parlare chiaro! “
“Ragazze, arriviamo!”
Quella di Lucrino non era una spiaggia esclusiva come potevano essere quella del Sea Garden o del Bagno Savoia (che, in realtà, non aveva nemmeno una spiaggia, ma uno stabilimento in legno costruito su palafitte), ma il solo fatto di essere difficilmente raggiungibile se non si aveva un automobile, produceva, di fatto, una
specie di selezione naturale, per cui i bagnanti che la frequentavano appartenevano tutti alla borghesia medio-alta di Napoli, e l'ambiente era molto familiare. In più, la posizione geografica, lontana dalle rotte commerciali del porto di Napoli, evitava la presenza delle “gallette” di petrolio che generano le petroliere al lavare le stive con l'acqua del mare, sversandola poi nel golfo. Lo stabilimento balneare aveva una fila di anguste cabine addossate al muro di cinta, gli spogliatoi, che si affittavano a giornata, mentre, più verso la riva, ma sempre lasciando una ampia fascia di sabbia dorata per ombrelloni e sdraio, si trovavano alcune file di ampie cabine in legno, affittate per tutta la stagione. All'entrata dello stabilimento c'era un piccolo bar, dove si potevano comprare gelati e rinfreschi o fare uno spuntino seduti ai pochi tavolini di cui disponeva. La madre di Roberto affittava ogni anno la stessa cabina per tutta la famiglia ma, di fatto, l'unico che la usava era Roberto: la madre e la sorella sposata solo andavano a Lucrino qualche fine de settimana, sicché la cabina restava a completa disposizione sua e dei suoi inseparabili amici.
La cabina contigua era affittata, anch'essa tutti gli anni, da una famiglia con due figlie, Tina e Lisa, più o meno coetanee di Roberto. L'amicizia tra i giovani era sorta spontanea fin dagli anni precedenti. Nelle tre ore di obbligatorio “riposo di digestione” dopo lo spuntino del mezzogiorno, durante le quali non era consigliabile bagnarsi per evitare possibili corti di digestione, i cinque erano soliti giocare a carte o ad uno strano gioco molto in voga sulle spiagge quegli anni: il gioco dello zoccolo. Il gioco consisteva nel fare girare con una spinta della mano, appunto, uno zoccolo appoggiato su di un rialzo della sabbia, cantando una sciocca cantilena che diceva, più o meno, “allo scambio del gioco noi giochiamo a scascimbàl. Per chi e va per chi viene con il gigolo-gigolo-là”, e, quando l'impulso si fosse esaurito e lo zoccolo si fosse fermato, vedere quale dei giocatori indicava la sua punta. Il giocatore così indicato era sottoposto ad una “penitenza”, scelta tra le cinque che, sempre le stesse, gli si proponevano. Nell'ultimo paio di anni, ai giocatori si univano due ragazzine, Olly (Ornella) e Mina, che venivano tollerate ma che mai entrarono a far parte effettiva della combriccola, giacché erano di un paio d'anni più giovani degli altri.
Col passare degli anni, l'amicizia tra Roberto e Tina si era andato trasformando in qualcosa di molto più profondo, tanto che, terminata l'università e superato con esito il concorso nell'Amministrazione Statale di Roberto, in capo ad un paio d'anni si sposarono.
Gianni, dal canto suo, continuò a vedersi con Lisa ma, farfallone com'era, la cosa non andò molto più in là di qualche passeggiata romantica e qualche bacio senza convinzione, terminando completamente alla fine della stagione dei bagni.
L'unico ancora “scapolo” era Paolo. Non ci sapeva fare, con le ragazza. Aveva sì preso un paio di “cotte” (non era affatto che le ragazze non gli piacessero, anzi!), ma
il suo romanticismo, il suo animo di poeta, era come un deterrente per le ultramoderne ragazze dell'epoca...altro che fiori e poesie d'amore! Altro che balli chick-to-chick! E lui odiava il rock! A volte si domandava se sarebbe mai riuscito ad avere una relazione...A dire il vero, c'era almeno una ragazza che gli faceva gli occhi dolci: Ornella che, con Mina, la sorella più piccola, “abitava” la cabina affianco.
Le due cercavano sempre di unirsi ai giochi della combriccola dei tre amici, che le tolleravano, ed Ornella faceva sempre in modo di trovarsi il più vicino possibile a Paolo, che era il suo idolo. Ma c'era un problema serio: Ornella aveva non più di quattordici anni. Una qualsiasi relazione che andasse più in là di una semplice amicizia di spiaggia era assolutamente impossibile...
Sesto San Giovanni (Milano). Ottobre 1987
Smog! Un muro grigio, spesso e compatto, che tappava completamente la vista e, quando alla fine si alzava, lasciava un nero tappeto di fuliggine sul pavimento del balconcino di casa. Vivere in quel clima così avverso e così diverso dal dolce clima napoletano era lo scotto che Paolo doveva pagare per veder realizzato il suo sogno professionale: la ricerca. Era stato infatti assunto nel centro di ricerca della più importante azienda chimica italiana. Non era l'Università, evidentemente, ma sempre un ottimo sostituto.
Quella che più aveva sofferto con l'impatto di un clima ingrato ed un intorno inospitale (erano terroni, provenienti da un'altra cultura, malvisti anche in una città come Milano, dove la percentuale di immigrati era forse la più alta di tutta Italia), era la moglie Ornella.
Ornella... La squallida, insignificante e petulante quindicenne dell'epoca dorata del liceo e delle piacevoli vacanze sulla spiaggia di Lucrino, durante gli anni dell'università si era convertita in una splendida ventenne, intelligente, colta e spigliata. Dalla brutta e sgraziata crisalide era emersa una meravigliosa farfalla. Si erano visti con frequenza. Ad Paolo piaceva la sua compagnia, ed era chiaro che anche per Ornella quegli incontri non erano indifferenti. Sicché quando per Paolo fu chiaro che se ne era innamorato, la reazione positiva della ragazza alle sue avances lo convinse che non era qualcosa di passeggero, ma che Ornella era oramai la donna della sua vita. Quando Paolo ottenne il posto nell'Istituto di Ricerca, lo seguì con entusiasmo a Milano, condividendo con lui i momenti amari della xenofobia dei vicini di casa e le sue soddisfazioni nel lavoro di ricerca che stava svolgendo.
Ma la nostalgia per il clima ed il mare di Napoli era troppo forte per entrambi, sicché finirono per sobbarcarsi gli ottocento chilometri di autostrada e tornare “a casa” per lo meno un paio di volte all'anno, in occasione delle vacanze natalizie o delle ferie estive.
Questo ottobre era un mese importante per Luca, il figlio: avrebbe cominciato il liceo. Aveva superato le medie con ottimi voti, ma il passaggio al liceo era qualcosa dippiù che un cambio di classe. Per Paolo, questo significava un po' quello che per gli antichi romani era indossare la toga pretexta, era il passaggio dall'infanzia alla gioventù, era l'inizio dei primi flirts seri (il ricordo del suo proprio con Ornella era ancora ben vivo nella memoria di Paolo), era l'inizio di una tappa potenzialmente pericolosa per il giovane e difficile per i genitori, che avrebbero dovuto seguirlo con molto tatto perché si mantenesse sulla strada giusta senza essere opprimenti ma senza mai perderlo di vista, senza mai imporre né proibire, ma cercando di instaurare una corrente di confidenza e di fiducia reciproca.
Napoli. Ottobre 1987
Seduto dietro la sua massiccia scrivania di Capo Sezione della Provincia di Napoli, Roberto stava ripassando con la mente la sua storia degli ultimi anni. Ottenuta finalmente ed alla meglio la laurea in Giurisprudenza in cinque anni ed una sessione (quattro anni di corso ed uno e mezzo di “fuori corso”), aveva affrontato tre concorsi in tre amministrazioni diverse ed alla fine aveva ottenuto il posto, tanto desiderato, di funzionario della carriera direttiva della Provincia. Finite le sue lotte con i testi giuridici ed i temari di concorso, oramai viveva una vita tranquilla, senza soprassalti, con la sicurezza di un lavoro che nessuno avrebbe potuto togliergli più.
Si era sposato, finalmente, con la sua fidanzata di sempre, Tina, ed ora erano in attesa del secondo figlio: la prima era stata una femminuccia, Anna, ma ora sarebbe stata la volta dell'erede delle corona!
Aveva mantenuto rapporti sporadici con Gianni, che gli dava sporadicamente scarse notizie di Paolo, come diceva lui, “perduto nelle brume del nord”. Però, suo malgrado, sentiva una certa invidia per l'amico della sua gioventù: aveva ottenuto il suo scopo, aveva un lavoro interessante che sicuramente, pensava Roberto, gli avrebbe dato molte più soddisfazioni di quelle che il suo dava a lui, aveva sposato l'ultima ragazza che Roberto avrebbe mai immaginato e (almeno così sembrava) erano felici. Poteva lui, Roberto, dire onestamente questo di se stesso?
In realtà, né il lavoro era esattamente un lavoro che potesse dare grandi soddisfazioni, né i suoi rapporti con Tina non erano esattamente quelli che avrebbe potuto sperare. A volte si domandava perché mai l'avesse sposata o, ancora meglio, perché mai lei avesse accettato di sposarlo. Tina aveva mantenuto, anche dopo sposata, i rapporti con le sue amiche di signorina, che vedeva spesso, e con la sua famiglia di origine, ma aveva messo Roberto in condizione di rompere con i suoi amici di gioventù (“Le amicizie di una coppia sono quelle che si fanno in coppia”, era solita ripetere) e di allontanarsi sempre più dalla sua famiglia. Eppure, in questo quadro generale così grigio, per non dire decisamente nero, un faro di luce brillava con forza: Anna! Affettuosa, deliziosamente smorfiosetta, affettuosa, espansiva ed estroversa, la bimba era il dono più prezioso che, a vedere di Roberto, gli aveva riservato la vita. Roberto rifletteva che, anche sa la vita non gli aveva dato tutto quello che avrebbe potuto aspettarsi, quella bimba riempiva qualunque vuoto. E quando si rese conto che Tina aveva un'avventura con un altro, Anna fu la sua ancora di salvezza, e la sua unica ragione di continuare a vivere.
Napoli. Novembre 1987
Intrappolato nel caos del traffico di Piazza Garibaldi, Gianni stava facendo un rapido bilancio della sua vita. La sua indubitabile preparazione professionale ed un notevole intuito gli avevano consentito di essere un ottimo diagnosticatore, lo avevano, in pochi anni, portato ad essere un massimalista. In più, la sua grande empatia verso i pazienti
Eppure, qualcosa mancava alla sua vita. Era stato incapace di creare relazioni stabili: con le donne che si erano avvicendate nel suo letto non era mai riuscito a creare un legame solido e durevole. Ma ora, prossimo ai quarantacinque anni, pensava che chissà fosse ora di “mettere la testa a posto”, crearsi una famiglia ed avere dei figli. Vedeva i suoi amici di gioventù sistemati e felici con le loro famigliole, e si sentì improvvisamente vecchio.
Arrivato alla studio, trovò l'anticamera affollata come sempre, quasi tutti vecchietti e cronici che venivano semplicemente a farsi firmare la solita ricetta della mutua.
Chiamò in disparte l'infermiera.
“Nina - le disse piano – debbo fare una telefonata. Tienili a bada cinque minuti. Ti avviso io quando puoi cominciare a farli entrare”
Seduto alla scrivania, alzò il ricevitore e marcò un numero.
“Pronto”: una voce argentina di donna gli rispose dall'altro lato della linea.
“Hallow, Lizzy, how are you?” (Salve, Lizzy, come stai?)
“Gianni! Is that really you?” (Sei davvero tu?)
“Si...Ti ho chiamato perché, be', ecco...volevo invitarti a cena per farmi perdonare...”
“Perdonare? Gianni, si perdona a chi ti ha fatto del male! Tu credi davvero che sei riuscito a farmi del male? Presuntuoso!”
“E tu, crudele... ma lasciamo da parte i complimenti. Ti andrebbe di cenare con me?”
“Quando?”
“Dimmi tu. Per me, anche questa sera stessa.”
“Come buoni amici?”
“Assolutamente!”
“Se me lo prometti...”
“Contaci!”
“D'accordo, allora. Stasera.”
“Ti va bene alle nove?”
“Perfetto!”
“Ti vengo a prendere alle nove, allora. See you soon”
“See you later!”
Andarono a cenare in un ristorante non distante dallo studio di Alex, dove lui era solito pranzare.
“Come vedi, il ristorante è modesto, ma la cuoca fa miracoli!”
“Mi fido dei tuoi gusti. Se non ricordo male, sei un vero gourmet.”
Si avvicinò il cameriere che salutò rispettosamente.
“Buona sera, dottore. Che possiamo servirle?”
“Gennarí, la signora è straniera. Stupiscila!”
“Lasciate fare a me. E da bere?”
“Acqua minerale non gassata per me.” ordinò Lizzy.
“Che acqua e acqua! - esclamò Alex- Portaci una buona bottiglia di Gragnano DOC!”
Mangiarono con appetito un'ottima lasagna napoletana ed un fritto misto di triglie, gamberi e calamari.
“Lizzy, - le disse Gianni mentre aspettavano l'ineludibile caffè di fine cena - la vera ragione di questo invito a cena è che volevo parlare seriamente con te.”
“Me lo ero immaginato. Non si ricompare così, all'improvviso, dopo tanti anni di
silenzio, solo per una cena differente. Non è da te!”
“Sono cambiato, Lizzy! Sono maturato...”
“Era ora, no?”
“Non ridere, per favore. Già è bastante difficile dirti quello che volevo dirti!”
Fece una breve pausa.
“Vorresti tornare con me, Lizzy? Ti offro una vita tranquilla, casa-lavoro-casa, con un turba di marmocchi che scorrazzano, giocano e ridono tra le nostre gambe...Che te ne pare?”
“L'immagine che mi proponi è allettante, lo ammetto. Ma il passato è ancora troppo recente nella mia memoria. E non è un ricordo molto piacevole, a dire il vero. Diciamo che avrò bisogno di tempo...”
“Tutto il tempo che vuoi. Solo, promettimi che non svanirai nel nulla, che a questa cenetta se ne aggiungeranno altre...che ci vedremo, per il momento senza impegno, come buoni amici, fino a che non avrai preso una decisione.”
“Se non ricordo male, quello che svanì nel nulla fosti tu. O sbaglio?”
“Te lo farò dimenticare! Promesso!”
Si rividero la settimana seguente, e la seguente, ed alla fine, Lizzy effettivamente dimenticò il passato e, quando alla fine Gianni le chiese “Lizzy, ti voi sposare con me?”, il “Si” di Lizzy fu immediato e sincero.
Sesto San Giovanni, Maggio 1988
“Questa sì che è una notizia davvero inaspettata!” disse esclamò Ornella, dopo aver letto il contenuto di una lettera appena arrivata da Napoli.
“Che c'è di tanto inaspettato, Ornella?” chiese Paolo.
“È arrivato un invito alle nozze di Gianni!”
“Alex? Già era ora! E chi, delle tante, è riuscita a incastrarlo? Per quello che sapevamo, Alex era assolutamente refrattario alle nozze!”
“Be', questa sembra proprio che ci sia riuscita. Non è della nostra combriccola di Lucrino, e, dal nome, sembra inglese: Elizabeth Non-so-che...”
“Una ragazza di fegato, sembrerebbe.”
“Se Gianni si è lasciato incastrare, per usare la tua stessa stupida fraseologia maschilista, bisogna ammettere che sa bene a cosa potrebbe andare incontro.”
“Il tempo passa per tutti, Ornè, e Gianni si sarà reso conto che non ha più l'età per correre la cavallina come un diciottenne, e che era ora di fermarsi e formare una famiglia.”
“Bene. Auguri alla intrepida figlia di Albione. Piuttosto, se decidiamo di andare, bisognerà rispondere subito e cominciare ad organizzarci, giacché suppongo che andremo con tutta la truppa.”
“Non mi perderei le nozze di Gianni nemmeno per un milione!” rise Paolo.
“Pienamente d'accordo. Chiamalo, e conferma che saremo lì con lui per l'avvenimento del secolo...”
“Tu chiama ai nonni: penso che saranno felici di tenersi i nipotini per una mezza giornata. Ed anche a me fa piacere rivedere i vecchi.”
Napoli, Giugno 1987
La cerimonia, solo civile giacché Lizzy era luterana, fu semplice e sbrigativa e molto intima. In compenso, il banchetto in un centrico ristorante fu veramente luculliano.
Dopo che Lizzy ebbe distribuito i confetti agli invitati, gli sposini partirono per il viaggio di nozze e la sala del ristorante cominciò a svuotarsi.
“Quanto tempo vi tratterrete qui a Napoli?” domandò Paolo a Roberto ed Ornella.
“Be', abbiamo approfittato dell'occasione, e ci siamo presi le ferie: ci tratterremo una quindicina di giorni.”
“State con i nonni, suppongo.”
“Si. Gli abbiamo letteralmente invaso la casa. Ma debbo aggiungere che stanno contentissimi per l'invasione...”
“Bene, allora vi faccio una proposta. Ho una casetta quasi sulla spiaggia a Vico Equense: che ve ne sembra passare una settimana al mare? Dopo tanto smog, deve essere un sollievo. E poi, vedo con piacere che il vostro Luca ha fatto buona amicizia con i miei Maurizio ed Anna.”
“Sopratutto con Anna. - rise Ornella – Se il mio istinto di madre-chioccia non mi inganna, c'è da aspettarsi che questa buona amicizia sia l'inizio di qualcosa di importante...”
Seduti sulle comode sdraio della spiaggia di Vico, mentre i ragazzi giocavano un'accanita partita di ramino e le donne commentavano i fatti mondani del momento, i due amici assaporavano il piacere di ritrovarsi insieme dopo tanti anni.
“Dovremmo vederci più spesso.- disse Paolo - Non dobbiamo aspettare il prossimo matrimonio che, presumibilmente, non si celebrerà che fra una decina d'anni!”
“Be', una soluzione ci sarebbe...Giacché suppongo che a Sesto non abbiate una spiaggia, ed andare a fare il bagni in piscina non è certo l'ideale, ti posso dare un'idea.”
“Sarebbe?”
“Fai come ho fatto io: comprati un appartamentino da queste parti e passa qui le ferie estive. Vedrai come finiremo per trascinare qui anche a quel sedentario di Alex! - rise- Non la conosco, ma immagino che neanche a Lizzy faccia molto piacere passare le soffocanti estati napoletane in città.”
“L'idea mi sembra buona. Ne parlerò con con calma con Ornella e ti farò sapere. “
Malta, Giugno 1987
Affacciati dall'alto dei bastioni de La Valletta, Gianni e Lizzy guardavano il panorama che si apriva davanti ai loro occhi. Il porto commerciale, le fortificazioni medievali e, in una terrazza giusto sotto di loro, la batteria di cannoni di bronzo che, ancora oggi, artiglieri in uniforme del secolo diciotto, sparavano a salve il giorno della festa nazionale.
Si erano alloggiati nell'elegante e modernissimo Hotel Preluna, a Slima, e da lì si erano spostati a visitare tutta l'isola.
Era incredibile la ricchezza di siti storici o archeologici che offriva l'isola: il centro storico de La Valletta, la capitale, con le sue stradine in forte pendenza, era rimasto intatto e conservava tutto il suo fascino anche con il traffico (ferreamente vietato alle automobili) di turisti stranieri e di affaccendati cittadini maltesi, gli imponenti palazzi cinquecenteschi dove si alloggiavano i Cavalieri di San Giovanni, uno per ogni nazionalità rappresentata nell'Ordine, la Cattedrale, piccola e raccolta, con le lapidi delle tombe dei vari Gran Maestri dell'Ordine che formano il pavimento della navata centrale.
Erano poi stati a visitare i “templi” megalitici di Mnaidra, Ggantia, Hagar Him, Tarscen: impressionanti costruzioni di grandi blocchi di pietra che tutti continuano a chiamare “templi” non ostante che, da un punto di vista strettamente archeologico, non si è potuto ancora accertare né chi li avesse costruiti né la loro reale funzione, ma sì che sono di mille anni prima di Stonehenge. Ma il più impressionante di tutti fu l'ipogeo di Hal Saflieni: una struttura completamente scavata in verticale nella roccia, su diversi livelli sempre più in profondità, e nel quale furono ritrovate le statuette chiamate “Veneri Maltesi”, figurine di donne dai fianchi spropositati, giacenti su di un lato.
Le bianche scogliere di Dingli offrirono loro uno spettacolo superbo: una altissima parete che si innalza verticalmente per duecento cinquanta metri a picco sul mare, che rugge e frange ai suoi piedi con bianche spume.
Però Malta non è solo storia ed archeologia, è anche spiagge di arena bianca e sottile, come quella di Melliah, nel nord dell'isola, dove passarono piacevoli mattinate di mare, mollemente sdraiati al caldo sole del Mediterraneo, dopo notti di amore intenso come quando, più giovani, si erano conosciuti.
L'aneddoto lo rappresentò il traffico: avevano affittato un' automobile e, a parte la difficoltà della guida a sinistra, come in Inghilterra, il totale disprezzo della maggior
parte dei guidatori maltesi per le regole del traffico ricordava loro gli ingorghi e la confusione delle strade di Napoli.
“E poi si lamentano che noi non sappiamo guidare!”
“Normale! Nel traffico cittadino, la colpa è sempre degli altri!”
“È che sono mediterranei, come noi...Ribelli, indisciplinati ed un po' menefreghisti.”
“Parla per te! IO non sono mediterranea!”
“Ah, già! Lo dimenticavo...”
Risero entrambi.
Sesto San Giovanni, ottobre 1987
“Un'altra giornata di smog...- si lamentò Ornella - Mi sento soffocata! E siamo appena in autunno! Ma come fa a vivere, la gente, qui?”
“E tu che credi? Che questa gente, come la chiami tu, vive? Secondo te, perché Milano è la città più industrializzata d'Italia? Perché la gente, se non dovesse lavorare fino a scoppiare, scoppierebbe per il clima, ahahah! Fai il paragone con Napoli, e capirai cosa voglio dire.”
“Si, e ricordo la canzone che dice ma co' 'stu sole, 'stu sole cuciente, ma chi vo' fa' niente, ma chi po' ffa' niente! (ma con questo sole, questo sole che scotta, chi vuole fare niente, chi può fare niente)”
“Pensa che mancano ancora solo otto mesi per tornare a Vico Equense: è quasi come una gestazione, ed il parto ci regalerà un mese di sole, mare e spiaggia.”
“Meritatissimi, direi io...”
“Sicuramente.”
Avevano seguito il consiglio di Roberto, ed avevano comprato, ad un prezzo ragionevole, un monolocale a pochi passi dalle spiaggia di Vico. L'estate prossima sarebbe stata la prima estate che avrebbero passato le ferie al mare a casa loro.
Vico Equense, Agosto 1990
“Hai già pensato a cosa farai dopo il liceo?” chiese Anna.
Anna e Luca stavano seduti sulla spiaggia. Luca ed Anna si erano visti tutte le estati degli ultimi tre anni e, come già aveva intuito Ornella tre anni prima, l'amicizia dei due ragazzi si era trasformata in qualcosa di molto più profondo.
“No, non lo so ancora. E poi, mancano ancora due anni. Sono indeciso, sicuramente un'ingegneria, ma non so se prenderò ingegneria chimica per sfruttare un po' l'esperienza di papà, o ingegneria elettronica, in vista di quello che sembra essere il futuro della tecnologia. E tu, cosa pensi di fare?”
“Io? Guarda, tirerò un sospirone di sollievo quando finisco il liceo artistico, e brucerò metaforicamente i libri. Lo so, potrei fare le Belle Arti a Napoli, ma, sinceramente, non ne ho nessuna voglia. Cercherò un lavoro, magari come insegnante. O mi metterò a dipingere e venderò paesaggi della Costiera sotto la statua di Torquato Tasso a Sorrento!”
Risero tutti e due e, quando Luca le passò un braccio intorno alle spalle, Anna gli si strinse vicino. Il primo bacio fu lungo ed appassionato, come se entrambi avessero
atteso da anni quel momento, e si fossero ritrovati adulti senza nemmeno accorgersene.
Napoli, 31 dicembre 1993
Avevano ripreso una vecchia tradizione di quando ancora erano tutti e tre studenti di liceo: si erano riuniti nella casa di Roberto che, dalla sua privilegiata posizione sull'alto della collina, dominava, dalle ampie balconate del salone, tutto il golfo, con l'azzurra sagoma del Vesuvio sul fondo, ed aspettavano la mezzanotte.
Anna e Luca erano usciti per andare a festeggiare l'anno nuovo in un locale alla moda, le donne discorrevano delle solite cose sedute nell'ampio divano, mentre i ragazzi giocavano a tombola nell'ampia cucina sul retro della casa.I tre amici giocavano l'inevitabile e tradizionale partitella a tressette col morto: Roberto con Paolo contro Alex ed il morto.
Se il poker è il gioco del silenzio e dell'impenetrabilità dei giocatori, il tressette non sarebbe tanto divertente com'è senza i continui commenti e le piccole discussioni tra i giocatori.
“Ma che cavolo, Robé.! - sbottò Paolo – Ma come diavolo giochi! Io ho sfidato a spade, e se lo ho fatto vuol ben dire qualcosa, no? E tu mi lisci con un sei?”
“E tu sei sordo o che? Ho appena dichiarato che ho fatto piombo (non ho più carte) a
questo palo!”
“Forza, forza...- si intromise Gianni - che siete due scamorze tutti e due, ahahah!”
“È che questo - brontolò Paolo indicando Roberto - gioca lui solo. Non sa che il tressette è un gioco di squadra...”
Arrivò finalmente la mezzanotte, e Napoli intera scoppiò in una fantasmagoria di luci, colori ed esplosioni. Da ogni balcone, da ogni finestra, si accendevano bengala, si sparavano razzi e tracche, e si tiravano alla strada oggetti vecchi o semplicemente inutilizzabili. Lo spettacolo, dalle balconate di Roberto, era impressionante: Napoli brillava come di giorno, mentre un densa nube di fumo grigiastro si stava formando ed aleggiava, come sospesa a mezz'aria, sulla città.
I tre amici stapparono un paio di bottiglie di Don Perignon e brindarono con le ragazze ed i figli, con la solenne promessa di ritrovarsi ancora a capodanno dell'anno venturo e di tutti gli anni venturi, mantenendo viva quell'amicizia sincera e profonda che li aveva uniti da ragazzi.
KRISTEL (La vichinga venuta dal gelo)

Alberto fu svegliato dallo squillo insistente del campanello della porta. Guardò l'orologio: le nove della mattina. Aprì la porta di malumore.
“Puon ciorno, amico mio dormiglione!”
“Kristel! Che fai qui? È l'alba!”
“Nein, mein liebe! Sono già le nove. Se davvero mi vuoi portare a Pompei, è meglio che ci muoviamo.”
“OK, dammi il tempo di farmi una doccia e ce mettiamo in cammino.”
Kristel gettò ad un lato i sandaletti aperti e, scalza, si sdraiò sul sofà,, con un paio di shorts bianchi cortissimi che scoprivano le lunghe gambe affusolate, una t-shirt azzurra attillata che le modellava perfettamente il busto, i corti capelli biondissimi sciolti sulle spalle, e aspettò che lui uscisse dalla doccia.
Era arrivata da qualche mese addietro, dalla sua città natale, Francoforte, come inviata freelancer di una rivista locale per la quale curava una pagina di viaggi e trismo. Francoforte: una città grigia, nel nord della Germania, sulle rive del fiume Meno. Arrivata a Napoli, si era innamorata del cielo azzurro, del mare blu, della gente aperta e cordiale, e, perché no?, della cucina e della pizza, ed era riuscita a convincere la direzione della rivista perché la destinassero nella capitale partenopea per un tempo indeterminato, per preparare una serie di “servizi” sul turismo nel sud d'Italia.
L'incontro con Alberto era stato casuale: stava fotografando la mole del Castel dell'Ovo dal lungomare di Santa Lucia, e lui le si era avvicinato, con uno smagliante sorriso di denti bianchissimi.
“Fraulein (signorina)?”
“Ya...Sprechen Sie deutche (Parla tedesco)?”
“Nur ein bissen...Sprechen Sie Italienisch (solo un poco...Lei parla italiano)”
Lei rise: “Nur ein ganz wenig (solo MOLTO poco)”
“Be', in qualche modo ci capiremo!”
Le raccontò la leggenda dell'uovo nascosto nelle fondamenta del castello, la cui rottura avrebbe provocato il crollo della fortezza e grandi sciagure per tutto il regno.
Lei gli raccontò come si trovasse lì per un servizio per la rivista con cui collaborava, lui si offrì come guida gratuita per mostrarle tutti i posti interessanti dei dintorni e Kristel accettò con piacere. Un aiuto insperato che sicuramente le avrebbe consentito fare il servizio della sua vita.
Visitarono il Maschio Angioino, pranzarono con gusto alla “Zi' Teresa”, poi San Martino, Capodimonte, i Camaldoli., e, per cena, pizza nella pizzeria Trianon, nel quartiere popolare di Forcella.
“E domani, Pompei....” Propose lui.
“Wunderbar (meraviglioso)!” accettò Kristel, entusiasta.
Scesero in garage. Alberto tolse la capotte alla sua sportiva rossa, e si diressero,
lottando contro il perenne traffico napoletano, all'autostrada, in direzione sud.
“Hai già fatto colazione? chiese lui.
“Colazione? Was ist das (cos'è)?”
“Colazione, fürstuck”
“Ah, no, non ancora...”
Fermarono al moderno motel della Pavesi, a pochi chilometri prima dell'uscita di Pompei. Fecero rapidamente colazione e poi, senza altre soste, il breve tratto restante fino a Pompei.
Kristel si guardava attorno affascinato: le vecchie stradina lastricate, con i tre blocchi di pietra per attraversarle quando pioveva, il forno, o il negozio di cereali, con i tre grandi otri di terracotta, le cui bocche apparivano dal banco di marmo, mentre le pance rimanevano nascoste da un muretto, gli affreschi, i mosaici, i verdi giardini interni con l'immancabile impluvium per raccogliere l'acqua piovana...Ogni cosa, ogni dettaglio, era per lei fonte di meraviglia ed ammirazione. La sua macchina fotografica non smetteva di sommare immagini ad immagini. Queste piccole cose della vita quotidiana degli antichi abitanti di Pompei, rimaste come congelate in un silenzio ed una immobilità secolare, ma ancora vive come se l'ultimo abitante se ne fosse andato, per qualche ragione ignota, solo ieri, la affascinavano più di quanto non lo avessero fatto il foro, o il teatro a gradinate fuori delle maura, o i resti dei templi: cose simili si trovano sparse un po' dappertutto laddove fossero arrivate le aquile imperiali di Roma, ma la Pompei della gente comune, con le sue case a due piani, i suoi negozi e, perché no?, il suo lupanare erano veramente una meravigliosa scoperta per Kristel.
Ma quello che più la colpì, furono i calchi di gesso delle vittime dell'eruzione, conservati nel piccolo museo degli scavi.
“Cosa sono questi calchi?”, chiese.
“Sono, appunto, calchi dei corpi che sono stati ritrovati durante gli scavi” rispose Alberto.
“Corpi? Cadaveri? Ma non sono stai inceneriti dalla lava?”
“No, vedi, ed è per questo che Pompei è unica al mondo: non fu sepolta dalla lava, come successe alla vicina Ercolano nella stessa eruzione del 71. Pompei fu sepolta dalla cenere vulcanica. Sicché quelli che morirono asfissiati dai gas letali che copersero la zona, rimasero intrappolati in una specie di sarcofago di ceneri incandescenti. Quando si cominciarono gli scavi, in epoca moderna, gli archeologi notarono queste cavità che i cadaveri avevano lasciato al decomporsi, e le riempirono con gesso. Togliendo poi con cautela la cenere di torno, quando il gesso si fosse solidificato, rimasero i calchi che vedi qui.”
“Incredibile!”
Mangiarono qualcosa nel ristorante degli scavi.
“Ho voglia di mare e di sole...” disse Kristel.
Ripresero quindi la macchina, de Alberto la portò ad Agropoli.
Arrivati alla spiaggia, Kristel si sfilò rapidamente gli shorts e la maglietta, e rimase in topless ed un minuscolo tanga brasiliano. Alberto ammirò la splendida figura della ragazza mentre sguazzava sulla riva della spiaggia prima di tuffarsi per una lunga nuotata, e capì che la desiderava ardentemente. Scattò molte foto di lei col cellulare,
per avere un ricordo tangibile di quella inaspettata, splendida giornata. Ma la giornata non era ancora terminata, almeno nelle intenzioni di Kristel.
Rientrarono a Napoli che era già notte.
“Ti accompagno all'albergo.”
“Albergo? Ma nooo! Ho voglia di discoteca!”
Andarono al “Rosso e Nero”: una fantasmagoria di luci stroboscopiche rompeva la semioscurità del locale, mentre un DJ pinchava musica dal ritmo esasperato. La pista era piena di corpi che ondeggiavano come ebbri, muovendo gambe e braccia alzate al ritmo della musica. No, pensò Alberto, quella non era musica!..
Però Kristel si sentiva perfettamente a suo agio. Lui la osservava dimenarsi al ritmo di quel frastuono, mentre, seduto su di un alto sgabello davanti al bar, beveva lentamente un whisky and soda son molto ghiaccio. Ammirò la voglia di vivere di Kristel.
La mattina seguente, Alberto fu svegliato dallo squillo insistente del campanello della porta. Guardò l'orologio: le nove della mattina. Aprì la porta di malumore.
“Puon ciorno, amico mio dormiglione!”
Era Kristel: si era presentata con un enorme valigione con le rotelline.
“Di partenza?” chiese lui.
“No, di trasloco” rispose con un timido sorriso e gli occhi bassi “vengo a vivere qui con te. Ho mandato via Internet le foto alla redazione, e mi hanno proposto un contatto formale per una serie di servizi. Non ti dispiace, vero?”
“Macché! Sono felice! Ma...fino a quando?”
“Per tutta la vita...o fino a che il destino non ci separi...”
Lui la abbracciò e le dette il primo, tanto desiderato, lungo bacio.
lunedì 17 ottobre 2011
SUE LINN (La bellezza dagli occhi a mandorla)

Sue Linn era l'interprete ufficiale che gli era stata assegnata per le sue missioni per visitare gli appaltatori che, nella repubblica Popolare di Cina, fabbricavano i macchinari che poi sarebbero stati installati nelle varie fabbriche cinesi dalla FMT, l'azienda inglese per cui lavorava.
Di un'età indefinibile (venticinque? trenta anni?) era minuta, non molto alta (gli arrivava alla spalla), ma aggraziata e con un corpicino ben formato. Parlava un ottimo inglese, cosa non molto frequente in Cina.
La base delle “operazioni” era sempre Hong Kong, dove aveva sede l'ufficio regionale della FMT e dove Sue Linn lo andava a prendere all'inizio e lo lasciava al termine di ogni missione.
Hong Kong, la Perla del Mare Meridionale della Cina, la città più bella del mondo secondo alcuni, aveva un fascino tutto particolare. La City, sull'Isola di Vittoria (la principale, anche se non la più grande, del gruppo di isole che costituisce Hong Kong), dovuto alla scarsezza di spazio, era cresciuta in verticale: era tutta una foresta di giganti di cristallo e cemento. I cristalli brillanti delle facciate, alcuni dorati, al tramonto acquistavano tutte le tonalità del rosso del sole che si tuffava nel mare. Il grattacielo più recente (all'epoca, i finali degli anni '50), il più alto di tutta l'isola, la sede del Bank of China,
si elevava maestoso al bordo di una piazzetta alberata. Di fronte, il porticciolo da cui partivano e a cui arrivavano i traghetti e gli aliscafi rapidi che collegavano, in un viavai continuo, Vittoria con le altre isole.
La prima missione fu a Ning Bo, una piccola isola al largo di Shanghai. Non più di una mezz'oretta di volo, su di un piccolo aereo delle linee nazionali cinesi, CAAC.
Ad un certo punto, dalle bocche di areazione all'interno dell'aereo cominciò ad entrare fumo bianco. Lui lo guadò con preoccupazione, memore della pessimistica e poco lusinghiera interpretazione che gli stranieri davano della sigla CAAC: “ Chinese Airlines Allways Crash”, le linee aeree cinesi sempre si schiantano. Ma Sue Linn, che aveva notato il suo malestare, lo tranquillizzò: “È solo condensa: fuori l'umidità è elevata e, con la bassa temperatura del condizionamento dell'interiore, condensa.”
Normalmente, cenavano assieme al ristorante dell'albergo dove lui si ospitava. Stranamente, mentre pernottare in un albergo riservato agli stranieri era severamente proibito ai locali, per cui Sue Linn doveva accontentarsi del più vicino ostello per cinesi, non le era vietato condividere, come invitata, la tavola di uno straniero al ristorante.
A pranzo, invece, erano inevitabilmente ospiti “d'onore” della direzione della fabbrica che stavano visitando. Un caso tipico, ma non unico, fu quello che gli offrirono a Kun Ming: una gran tavolata con almeno una dozzina di persone e, al centro, una torre giratoria di piatti, ognuno con una prelibatezza distinta. Fu la prima ed unica volta che vide un cinese in difficoltà con i chopsticks, i classici bastoncini che gli orientali usano invece delle forchette: una delle portate era costituita da uova di piccione, lessate e sgusciate. I chopsticks scivolavano sulle uova, ed era realmente molto difficile prenderle...Le soluzioni adatte sarebbero state due: o prendere l'ovetto con le dita, o infilarci dentro uno dei chopsticks a mo' di pugnale. Ma entrambe le opzioni sarebbero state una grossolanità imperdonabile.
Avete mai provato a mangiare il riso con i chpsticks? A noi occidentali sembra una impresa impossibile: abituati a prendere cibi “solidi” un boccone alla volta, siamo portati naturalmente a fare lo stesso anche con i chopsticks, ma questo, evidentemente non funziona col riso: per questo e per evitare imbarazzo, si serviva “pane cinese”: un impasto di acqua e farina fritto in olio di sesamo.
I cinesi usano, per il riso, una tecnica che ad uno straniero può sembrare poco piacevole da vedersi: avvicinano la ciotola alla bocca, come se dovessero bere un liquido, poi, con i chopsticks scopano letteralmente il riso dentro le fauci...
La tappa seguente fu la cittadina di Xiamen. L'albergo per stranieri dava sullo stretto braccio del Mare Meridionale di Cina che separa la piccola isola dove si trova la città dalla Cina continentale, alla quale era collegata da un ponte. La cittadina, piccola per gli standard cinesi, era di casette bianche, stradette piene di venditori ambulanti ed una marea di gente affaccendata in mille faccende che si muoveva in tutte le direzioni. Xiamen gli piaceva per il mare, anche se pure Shenzhen, altra città che aveva visitato per lavoro, sta sul mare, però non aveva l'incanto di Xiamen. Forse perché questa era più piccola, più intima, più “cinese”: l'altra, Shenzhen, era una metropoli, affollata, molto occidentalizzata (era la centrale dell'industria tecnologica, elettronica e telefonica) ed era, in realtà, l'entroterra dell'allora colonia inglese di Hong Kong, collegata al quel territorio da un ponte su uno stretto fiume, al termine del quale c'era il posto della dogana cinese. In più l'albergo, a Shenzhen, era situato all'interno, e non si vedeva il mare...Affacciato al balcone del suo albergo in Xiamen, rifletteva che era vissuto praticamente tutta una vita vicino al mare, e, dopo i lunghi anni dell'altopiano spagnolo in cui viveva ultimamente, il tornare, anche se per breve tempo, vedere le acque azzurre di una placida baia coperta dalle vele quadre di una miriade di giunche lo riportava a tempi oramai passati in cui era stato felice.
Sue Linn aveva captato questo suo stato d'animo, e gli era stata vicina più come amica che come interprete di lavoro. Stava forse iniziando qualcosa di “diverso” tra di loro? Era una donna dolce, che sapeva farlo sorridere quando, negli intervalli del lavoro o durante gli spostamenti per l'immensa estensione del gigante Cina, si sedevano per cenare insieme nel ristorante dell'hotel o, se erano in una grande città, in un ristorante per stranieri, chiacchierando allegramente di cento cose intrascendenti. Ma era anche capace di rispettare i suoi silenzi, quando intuiva che era altrove con la mente, immerso nei
Fu in Huhohot, capitale della Mongolia Cinese, nell'estremo nord, quando successe l'inevitabile. La direzione aveva organizzato, per il giorno di riposo, un'escursione nella steppa mongola: colazione in una yurta, la tipica tenda di pelle di cammello, circolare, col tetto conico e il focolare al centro, bevendo latte di cammella e chiacchierando allegramente con la vecchia uygur padrona della tenda. Fu una giornata di distensione, nella steppa, dove branchi di cavalli galoppavano liberamente con le criniere al vento, e sparuti greggi pascolavano sotto lo sguardo stanco dei pastori uygur. Sue Linn, gli lanciava occhiate assassine, cercava di stargli il più vicino possibile, e gli lasciava intendere abbastanza chiaramente che non le sarebbe affatto dispiaciuto se i loro rapporti avessero oltrepassato le frontiere del puramente ed asetticamente professionale.
Ma fu al secondo viaggio a Huhohot quando successe...Come, nessuno dei due lo avrebbe potuto dire con certezza ma, al rientro all'albergo la sera dell'ultima giornata di lavoro, si trovarono sotto le stesse lenzuola...
Era la sua ultima missione, abbandonava definitivamente quel Paese misterioso ed affascinante che sarebbe rimasto per sempre nella sua memoria.
Quando lo accompagnò all'aeroporto di Guangzhou (Cantòn) per prendere l'aereo che, via Hong Kong, lo avrebbe riportato definitivamente in Italia, Sue Linn lo salutò con un “Zai jen! (arrivederci)”.
“Pu shi, wode shao Su Linn, pu zai jen.... no, mia piccola Sue Linn, non arrivederci, ma addio, non ti dimenticherò , ma il nostro destino si divide qui e per sempre...
“Wo ai ni! (ti amo)”, mormorò lei quasi in un soffio.
La sua figurina, in piedi dietro le vetrate dell'aeroporto, salutando malinconicamente con una mano, scomparve quando l'aereo cominciò a rullare, lasciandogli un amaro senso in bocca ed un nodo alla gola.
domenica 16 ottobre 2011
SIVANA (Il marito poeta)

Un vecchio detto napoletano recita :“Mariti poeti non danno fortuna: son sempre pezzenti guardando la luna”
Evidentemente, Silvana non lo conosceva, o lo considerava una sciocchezza popolare che non meritava seria considerazione. Sicché, quando sulla sua strada si incrociò Piero, che le dedicava canzoni e le scriveva poesia di amore romantico, si lasciò sedurre.
Lo aveva conosciuto in una serata organizzata da amici comuni. Avevano ballato insieme tutta la serata, parlando di cento cose. Lei gli parlò del suo lavoro di segretaria in uno studio di avvocati, lui dei suoi studi nella Facoltà di Lettere dell'Università di Napoli, degli esami che aveva lasciato indietro e di quei pochi superati, però con ottimi voti., ed anche delle sue aspirazioni letterarie e dei suoi sogni di gloria.
Aveva trovato Piero simpatico, anche se la sua vena malinconica era forse quello che più l'aveva colpita. Silvana era, nell'epoca del Rock 'n Roll, una romantica incorreggibile e, quella sera, scoprì di non essere la sola: Piero era più romantico di lei...Ballarono solo “lenti”, stretti stretti l'uno all'altra. Al lasciarsi, Pedro le propose di vedersi un'altra volta e Silvana accettò. Si scambiarono i numeri di telefono.
La domenica dopo, Piero la chiamò.
“Ciao, Silvana.”
Riconobbe la voce.
“Piero!”
“Ho voglia di vederti. Conosci il bosco della Facoltà di Agraria?”
Lei rise: “Credi che possa essere nata e vissuta qui per vent'anni senza mai aver visto il bosco? Mi ci portava mio padre da bambina!”
“Allora potrai farmi da guida...”
Camminarono in silenzio per i sentieri del bosco di quella che era stata un tempo la Reggia di Portici ed era ora la Facoltà di Agraria, fino a che lui le passò un braccio intorno alle spalle, e lui gli passò il suo intorno alla vita.
Usciti dal bosco, arrivati alla piazza della fontana, Piero le indicò una stretta ed alta torre medievale di tufo giallo, che si elevava, solitaria e taciturna, all'angolo della strada che portava all'autostrada.
“Vedi quella torre? È la torre della Regina Giovanna. Si racconta che la regina Giovanna I ricevesse qui i suoi amanti nell'alcova che c'è nel più alto della torre. Dopo una notte di amore, li faceva precipitare per la scala a chiocciola aggrappata alla parete interna della torre, e poi seppelliva i resti nei sotterranei.”
“Che macabro!”
“Amore e morte, l'eterno binomio della vita...”
Si sposarono, contro l'opposizione del padre di Silvana, che considerava Piero uno scansafatiche approfittatore, e, di conseguenza, non “un buon partito”.
“Vedrai che dopo sposati metterà la testa a posto!” lo rassicurò Silvana.
Andarono a vivere nell'appartamentino che Piero aveva ereditato dai genitori, morti da qualche tempo.
Agli inizi, tutto fu felicità, amore e tenerezza: la poesia di Piero nasceva dal cuore, ed arrivava dritta dritta al cuore di lei. Ma poi, piano piano, sopraggiunsero le difficoltà della vita reale: la prima, quella economica. La poesia non “vende”, le canzoni rimangono nel cassetto senza un'adeguata promozione, e l'amore a stomaco vuoto non si vive con la stessa intensità che può dare la tranquillità economica.
“Piero, dobbiamo parlare” gli disse un giorno Silvana.
“Ti ascolto” rispose Piero, spegnendo il pc.
“Sai che ti voglio bene, sai anche che mi piace quello che scrivi. Però devi trovarti un lavoro...”
“Ancora un po' di pazienza, Silvanella: sto cercando un editore.”
“Ma chi va a comprare libri di poesia, di questi tempi?”
“Forse poesie nessuno. Ma sto scrivendo un romanzo. Ed l'ho quasi terminato.”
“Piero...aspetto un bambino...”
La guardò, aprì la bocca come per dire qualcosa, ma le parole non gli venivano.
“Non sei contento?”
Si scosse, abbozzò un sorriso, si alzò e l'abbracciò. Ma a lei sorriso ed abbraccio suonarono falsi.
“Sì, certo...ma...non stavi prendendo la pillola?”
“Avevo smesso.”
“No ti pare che certe decisioni bisogna prenderle in due?”
“Pensavo che ti avrebbe fatto piacere avere un figlio. Siamo già sposati da tre anni!”
“E tu? Tu non pensavi che un figlio potrebbe aver spezzato la mia carriera?
“Ma che carriera? Se da che ti conosco non hai pubblicato niente! Se l'unica che lavora, qui in casa, sono io? E poi, che famiglia è, senza un paio di marmocchi per casa?”
“Mi stai rinfacciando che mi mantieni?”
“No. Non te lo sto rinfacciando, ti voglio bene e non potrei farlo. Ma sto constatando una realtà.”
Piero si alzò, prese la giacca, uscì sbattendo la porta. Silvana rimase a piangere silenziosamente.
Tornò dopo tre ore, puzzando ad alcool. Andò direttamente in cucina, si preparò un
caffè, e si chiuse nello studio.
Quella notte non andò a dormire con lei.
La mattina dopo, senza scambiare una parola con Silvana, fece la valigia e uscì di casa, chiudendosi la porta alle spalle.
“É stata colpa mia!” commentò alcuni giorni dopo a Paquita, la ragazza cilena, quasi sua coetanea, sua amica, che era diventata la spalla su cui piangere “Non ho saputo incoraggiarlo. Gli ho praticamente rinfacciato che l'ho mantenuto durante questi tre
anni...”
“No, Silvana, non ti creare rimorsi ingiusti ed inutili. Ha sido él, que se ha portado como un puerco cabrón! (è stato lui che si è comportato come un porco caprone).Tu ora devi solo pensare al bimbo che porti dentro. Vedrai che le cose si aggiusteranno. Magari quando nasca il bebè...”
“Mi manca, Paquita! Mi manca, e sento di amarlo ancora , sempre come il primo giorno.”
“Vés? (vedi?). E sicuro anche lui ancora ti ama. Dale tiempo al tiempo (dai tempo al tempo)!”
Intanto Silvana continuava con il trantran del lavoro e della casa cui badare. Sempre più grossa, sempre più pesante, fino a che non arrivò il momento della licenza per maternità.
Al tempo giusto, nacque Mirna, una meravigliosa bambina tutta rosa e con i radi capellucci biondi.
“Que mona! (che bella!)” esclamò Paquita, che la aveva accompagnata alla clinica.
“Com'è andato il parto?”
“ Be', per essere il primo, direi che bene. Temevo molto peggio...”
“Ya veràs el pròximo (vedrai il prossimo)! Sarà ancora più facile.”
“Ahahah!- rise Silvana – sempre che sia concepito per opera e virtù dello Spirito Santo...”
“Non dire stupidaggini. Piero non è l'unico uomo sulla terra. Troverai un altro...”
Silvana la interruppe. “No, Piero è stato e sarà sempre il mio uomo, e non ne troverò un altro, già lo so. In amore non esistono le soluzioni di convenienza...”
“Dale tiempo al tiempo...”
Il giorno dopo la nascita della bambina, Piero si presentò in clinica con un enorme fascio di fiori ed un pacchetto legato con un sottile nastrino dorato.
“Posso vederlo?”
“Vederla, Piero, è una bimba!”
Si avvicinò a la culletta, e contemplò quella cosina rosea e paffutella, che dormiva placidamente,
“È stupenda! Mia figlia...” ed il cuore gli si riempì di tenerezza ed emozione.
“E il pacchetto?” domandò Silvana.
“Aprilo, è per te.”
“Un libro? Piero! Te lo hanno pubblicato!”
“Sì, come vedi...”
Lei gli tese le braccia, e si fusero in un lungo, silenzioso abbraccio.
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