lunedì 17 ottobre 2011

SUE LINN (La bellezza dagli occhi a mandorla)



Sue Linn era l'interprete ufficiale che gli era stata assegnata per le sue missioni per visitare gli appaltatori che, nella repubblica Popolare di Cina, fabbricavano i macchinari che poi sarebbero stati installati nelle varie fabbriche cinesi dalla FMT, l'azienda inglese per cui lavorava.
Di un'età indefinibile (venticinque? trenta anni?) era minuta, non molto alta (gli arrivava alla spalla), ma aggraziata e con un corpicino ben formato. Parlava un ottimo inglese, cosa non molto frequente in Cina.
La base delle “operazioni” era sempre Hong Kong, dove aveva sede l'ufficio regionale della FMT e dove Sue Linn lo andava a prendere all'inizio e lo lasciava al termine di ogni missione.
Hong Kong, la Perla del Mare Meridionale della Cina, la città più bella del mondo secondo alcuni, aveva un fascino tutto particolare. La City, sull'Isola di Vittoria (la principale, anche se non la più grande, del gruppo di isole che costituisce Hong Kong), dovuto alla scarsezza di spazio, era cresciuta in verticale: era tutta una foresta di giganti di cristallo e cemento. I cristalli brillanti delle facciate, alcuni dorati, al tramonto acquistavano tutte le tonalità del rosso del sole che si tuffava nel mare. Il grattacielo più recente (all'epoca, i finali degli anni '50), il più alto di tutta l'isola, la sede del Bank of China,
si elevava maestoso al bordo di una piazzetta alberata. Di fronte, il porticciolo da cui partivano e a cui arrivavano i traghetti e gli aliscafi rapidi che collegavano, in un viavai continuo, Vittoria con le altre isole.
La prima missione fu a Ning Bo, una piccola isola al largo di Shanghai. Non più di una mezz'oretta di volo, su di un piccolo aereo delle linee nazionali cinesi, CAAC.
Ad un certo punto, dalle bocche di areazione all'interno dell'aereo cominciò ad entrare fumo bianco. Lui lo guadò con preoccupazione, memore della pessimistica e poco lusinghiera interpretazione che gli stranieri davano della sigla CAAC: “ Chinese Airlines Allways Crash”, le linee aeree cinesi sempre si schiantano. Ma Sue Linn, che aveva notato il suo malestare, lo tranquillizzò: “È solo condensa: fuori l'umidità è elevata e, con la bassa temperatura del condizionamento dell'interiore, condensa.”
Normalmente, cenavano assieme al ristorante dell'albergo dove lui si ospitava. Stranamente, mentre pernottare in un albergo riservato agli stranieri era severamente proibito ai locali, per cui Sue Linn doveva accontentarsi del più vicino ostello per cinesi, non le era vietato condividere, come invitata, la tavola di uno straniero al ristorante.
A pranzo, invece, erano inevitabilmente ospiti “d'onore” della direzione della fabbrica che stavano visitando. Un caso tipico, ma non unico, fu quello che gli offrirono a Kun Ming: una gran tavolata con almeno una dozzina di persone e, al centro, una torre giratoria di piatti, ognuno con una prelibatezza distinta. Fu la prima ed unica volta che vide un cinese in difficoltà con i chopsticks, i classici bastoncini che gli orientali usano invece delle forchette: una delle portate era costituita da uova di piccione, lessate e sgusciate. I chopsticks scivolavano sulle uova, ed era realmente molto difficile prenderle...Le soluzioni adatte sarebbero state due: o prendere l'ovetto con le dita, o infilarci dentro uno dei chopsticks a mo' di pugnale. Ma entrambe le opzioni sarebbero state una grossolanità imperdonabile.
Avete mai provato a mangiare il riso con i chpsticks? A noi occidentali sembra una impresa impossibile: abituati a prendere cibi “solidi” un boccone alla volta, siamo portati naturalmente a fare lo stesso anche con i chopsticks, ma questo, evidentemente non funziona col riso: per questo e per evitare imbarazzo, si serviva “pane cinese”: un impasto di acqua e farina fritto in olio di sesamo.
I cinesi usano, per il riso, una tecnica che ad uno straniero può sembrare poco piacevole da vedersi: avvicinano la ciotola alla bocca, come se dovessero bere un liquido, poi, con i chopsticks scopano letteralmente il riso dentro le fauci...
La tappa seguente fu la cittadina di Xiamen. L'albergo per stranieri dava sullo stretto braccio del Mare Meridionale di Cina che separa la piccola isola dove si trova la città dalla Cina continentale, alla quale era collegata da un ponte. La cittadina, piccola per gli standard cinesi, era di casette bianche, stradette piene di venditori ambulanti ed una marea di gente affaccendata in mille faccende che si muoveva in tutte le direzioni. Xiamen gli piaceva per il mare, anche se pure Shenzhen, altra città che aveva visitato per lavoro, sta sul mare, però non aveva l'incanto di Xiamen. Forse perché questa era più piccola, più intima, più “cinese”: l'altra, Shenzhen, era una metropoli, affollata, molto occidentalizzata (era la centrale dell'industria tecnologica, elettronica e telefonica) ed era, in realtà, l'entroterra dell'allora colonia inglese di Hong Kong, collegata al quel territorio da un ponte su uno stretto fiume, al termine del quale c'era il posto della dogana cinese. In più l'albergo, a Shenzhen, era situato all'interno, e non si vedeva il mare...Affacciato al balcone del suo albergo in Xiamen, rifletteva che era vissuto praticamente tutta una vita vicino al mare, e, dopo i lunghi anni dell'altopiano spagnolo in cui viveva ultimamente, il tornare, anche se per breve tempo, vedere le acque azzurre di una placida baia coperta dalle vele quadre di una miriade di giunche lo riportava a tempi oramai passati in cui era stato felice.
Sue Linn aveva captato questo suo stato d'animo, e gli era stata vicina più come amica che come interprete di lavoro. Stava forse iniziando qualcosa di “diverso” tra di loro? Era una donna dolce, che sapeva farlo sorridere quando, negli intervalli del lavoro o durante gli spostamenti per l'immensa estensione del gigante Cina, si sedevano per cenare insieme nel ristorante dell'hotel o, se erano in una grande città, in un ristorante per stranieri, chiacchierando allegramente di cento cose intrascendenti. Ma era anche capace di rispettare i suoi silenzi, quando intuiva che era altrove con la mente, immerso nei
Fu in Huhohot, capitale della Mongolia Cinese, nell'estremo nord, quando successe l'inevitabile. La direzione aveva organizzato, per il giorno di riposo, un'escursione nella steppa mongola: colazione in una yurta, la tipica tenda di pelle di cammello, circolare, col tetto conico e il focolare al centro, bevendo latte di cammella e chiacchierando allegramente con la vecchia uygur padrona della tenda. Fu una giornata di distensione, nella steppa, dove branchi di cavalli galoppavano liberamente con le criniere al vento, e sparuti greggi pascolavano sotto lo sguardo stanco dei pastori uygur. Sue Linn, gli lanciava occhiate assassine, cercava di stargli il più vicino possibile, e gli lasciava intendere abbastanza chiaramente che non le sarebbe affatto dispiaciuto se i loro rapporti avessero oltrepassato le frontiere del puramente ed asetticamente professionale.
Ma fu al secondo viaggio a Huhohot quando successe...Come, nessuno dei due lo avrebbe potuto dire con certezza ma, al rientro all'albergo la sera dell'ultima giornata di lavoro, si trovarono sotto le stesse lenzuola...
Era la sua ultima missione, abbandonava definitivamente quel Paese misterioso ed affascinante che sarebbe rimasto per sempre nella sua memoria.
Quando lo accompagnò all'aeroporto di Guangzhou (Cantòn) per prendere l'aereo che, via Hong Kong, lo avrebbe riportato definitivamente in Italia, Sue Linn lo salutò con un “Zai jen! (arrivederci)”.
“Pu shi, wode shao Su Linn, pu zai jen.... no, mia piccola Sue Linn, non arrivederci, ma addio, non ti dimenticherò , ma il nostro destino si divide qui e per sempre...
“Wo ai ni! (ti amo)”, mormorò lei quasi in un soffio.
La sua figurina, in piedi dietro le vetrate dell'aeroporto, salutando malinconicamente con una mano, scomparve quando l'aereo cominciò a rullare, lasciandogli un amaro senso in bocca ed un nodo alla gola.

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